Da oramai una settimana Dio è Morto.
Tra sacro e profano, tra blasfemia e convinzione, la morte di Diego Armando Maradona ha vissuto una parentesi che probabilmente nessuno di noi aveva potuto vivere di persona nell'arco della propria esistenza.
3 giorni lutto nazionale in Argentina, 1 giorno di lutto cittadino a Napoli.
Quale uomo ha ricevuto una simile gloria a migliaia di km di distanza e con la stessa passione.
Funerali privati ma preceduti da quasi 1 milione di visite in poche ore. Il tutto con una pandemia ad ostacolare accessi e visite.
Miliardi di persone commosse.
Giornalisti in lacrime, ex colleghi in lacrime, tifosi in lacrime.
Persone che mai lo avevano incontrato o visto dal vivo, in lacrime.
Quello che Maradona è stato per il mondo del calcio non si può spiegare.
Quello che Diego ha rappresentato per Napoli e i Napoletani non si può spiegare.
Capisco quelli che non capiscono quello che Diego sia stato per noi amanti del calcio e per i campani.
Diego è la rivoluzione.
La rivoluzione del gioco e del modo di vivere il gioco.
Una rivoluzione sociale.
Senza di lui tutto finisce e tutto è perduto.
Laddove oggi i campioni cadono al primo soffio dell'avversario in cerca di un fallo magari inesistente, lui rotolava solo se asfaltata ma con l'unico obiettivo di alzarsi e ripartire, verso la porta, veloce e scattante con il suo amato pallone tra le mani.

Laddove oggi gli Higuain, i Sarri, i Chiesa di questo mondo stracciano patti, abbandonano tifoserie, vendono se stessi per l'amata Juventus, per il potere e la voglia di vincere facile, lui accettava il posto più difficile, il club dove mai nessuno aveva vinto, il luogo contrastato e vilipeso da tutti.
Maradona era libertà, orgoglio, riscatto, gioia.
Era l'idolo senza addominali e pieno di peccati.
Era uno di noi.
Ma era sopra ognuno di noi.
Mortale e immortale.
Umano eppure divino.

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