Opinioni - n. 14 - Calcio: sport, spettacolo o business?

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(Edited)

La polvere non ha finito di diradarsi dopo l'improvvisa esplosione provocata dall'annuncio della creazione della Superleague europea ad opera di 12 top team quando ho deciso di offrire anche la mia chiave di lettura da persona pragmatica e liberista dell'accaduto.

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Partiamo da un breve riassunto dei fatti che sicuramente tutti conoscono, molti anche meglio di me, che di fatti calcistici mi son sempre interessato poco sotto l'aspetto agonistico.

12 dei più forti e ricchi club calcistici europei, fra cui 6 inglesi (Manchester City, Manchester United, Liverpool, Arsenal, Chelsea, Tottenham Hotspur), 3 spagnole (Real Madrid, Atletico Madrid, Barcellona), 3 italiane (Juventus, Milan, Inter) hanno annunciato la nascita di un nuovo torneo calcistico fuori dall'egida dell'UEFA, la Federazione calcistica europea, a 16 squadre. I 12 team avrebbero partecipato come fondatori ad ogni nuova edizione, mentre le restanti 4 wildcard sarebbero state offerte su invito a team che di volta in volta sarebbero stati scelti in base ai loro risultati (sportivi?). Il tutto con il beneplacito finanziamento da parte di una banca d'affari di primo piano: JP Morgan. Sono rimaste fuori dal progetto 3 club di primo piano: le due tedesche, Bayern Munchen e Dortmund, e la francese Paris Saint Germain.

Già pochi minuti dopo l'annuncio è scoppiato l'inferno: si sono sollevate una marea di contestazioni al progetto portate avanti dalle diverse entità coinvolte. Associazioni e federazioni (UEFA, FIFA, Federazioni nazionali, club esclusi dalla competizione), tifoserie e autorità politiche si sono accapigliate a chi poteva condannare di più l'iniziativa ed a prevedere sanzioni.

Il progetto è così ben presto naufragato con la rotta, con la coda fra le gambe, dei club promotori. A seguire a stretto giro le scuse, cercando il perdono per evitare sanzioni più o meno ventilate a destra e manca, che si vedrà come e se si formalizzeranno.

L'accaduto, al di là di ogni considerazione di parte, ha oggettivamente come il Re Calcio sia nudo.

Ed ha, a mio modestissimo parere, avuto il pregio di far arrivare finalmente i nodi al pettine, di un mondo, quello calcistico, estremamente ipocrita, in una società che ha fatto dell'ipocrisia il suo valore dominante. E purtroppo temo che sia un'occasione perduta per portare finalmente in luce la situazione e renderla chiara ed evidente a tutte le parti coinvolte.

Il punto è che tutti hanno ragione. Il problema è che ognuno pensa di esser l'unico ad aver ragione.

I club promotori dell'iniziativa l'hanno presentata come l'unica in grado di risollevare le sorti economiche del mondo calcistico, senza evidenziare troppo che in primis si sarebbero sollevate le loro, allargando un gap rispetto alle altre già enorme. Tutti gli altri invece hanno rivendicato la supremazia del diritto sportivo come ennesimo diritto acquisito della società umana.

Sullo sfondo la realtà: il mondo delle calcio così com'è non è economicamente sostenibile. Non lo era neanche prima, immaginiamo ora nell'epoca Covid.

L'equivoco di fondo è nella tripolarità con cui viene interpretato, a secondo dell'opportunismo di parte, spesso con veloci voltafaccia, il calcio stesso che all'occorrenza è considerato uno sport, uno spettacolo o un business. Per carità, tre principi tutti egualmente legittimi, ma scambiare troppo spesso e con eccessiva nonchalance l'interpretazione porta, appunto, ad un equivoco insanabile.

Se è vero che il calcio è uno sport non si capisce perché si sia fatto distinzione, durante la pandemia, fra l'apertura concessa ai campionati nazionali e quelli dilettantistici o peggio ancora a quelli amatoriali o scolastici, che sono stati invece condannati alla chiusura. A giustificazione si è preferito considerarlo un business addirittura fra quelli essenziali (a chi?).

Ma questo è solo un esempio fra le mille contraddizioni opportunistiche che esistono nel mondo del calcio.

Se i tifosi considerano davvero il calcio uno sport perché si accapigliano tanto quando un presidente non tira fuori di tasca sua i milioni, centinaia di milioni, che servono a gestire il club ad altissimi livelli? Perché non si mettono le mani nelle proprie tasche? Non sono certo le pur "esose" spese di abbonamento allo stadio (quest'anno risparmiate) o alla pay-tv a permettere ai grandi club di ingaggiare le stelle che i tifosi acclamano. Non rendersene conto significa ignorare la realtà.

Se il calcio è uno spettacolo o un business allora la Superleague aveva la sua ragione d'essere, esattamente come la NBA, che non mi risulta aver mai sollevato polemiche simili, ma anzi praticamente solo entusiasmi. Ma in quel caso mi sembrerebbe banale che i club promotori di questa iniziativa si escludessero da soli dall'ambito sportivo in cui avevano finora militato e volevano lasciare le altre formazioni. Troppo comodo voler partecipare a competizioni sportive partendo dal vantaggio esclusivo delle entrate extra garantite dalla loro iniziativa blindata ed autogestita.

Le Federazioni sportive hanno anch'esse però le loro pesanti responsabilità. In un anno come quello passato, dove i bilanci dei club erano in evidente affanno, aggravando una situazione per lo più già critica, hanno applaudito alle iniziative dei giocatori che rinunciavano a parte degli emolumenti, ma hanno evitato di intraprendere qualsiasi iniziativa potesse servire a ridurre i costi, a partire dalle iscrizioni ai vari campionati con relative sanzioni a carico di coloro che non le pagassero, fino alle esclusioni dai campionati stessi. I loro costi dovevano esser tutti garantiti, come giusto in un mondo di privilegiati.

Inutile citare il ruolo, e le responsabilità, delle star per eccellenza di questo spettacolo chiamato calcio: gli atleti, i campioni. Si è vero che alcuni hanno appunto rinunciato a parte degli ingaggi. Ma stiamo parlando di briciole in una tavola imbandita di ogni ben di Dio. E sono pronti a correre dietro a nuovi ingaggi stellari ad ogni nuova occasione che si presenta, anche in questa nuova stagione, ignorando che sono proprio i loro ingaggi ad aver messo in moto il disastro oramai da qualche decennio. E sono prontissimi a intavolare trattative segrete con mille escamotage per aggirare le pur blande regole sulla limitazione degli ingaggi imposti a livello internazionale, con sanzioni che rimangono quasi sempre solo sulla carta.

Ma, li ho appositamente tenuti per ultimi, paradossali sono stati i politici, che hanno cavalcato questo avvenimento in maniera grandiosa, facendosi portatori degli interessi popolari come non mai. Tutti hanno issato la bandiera dello sport bene comune ma la medaglia al valore (sportivo?) merita senza dubbio al più audace fra loro: Boris Johnson, che ha trovato il vaccino giusto contro il virus della Superleague, arrivando a far ricorso alla minaccia della rottura delle relazioni internazionali con gli Emirati Arabi Uniti, mettendo spalle al muro gli Emiri, nonché proprietari del Manchester City, primo dei club a rompere le fila dei promotori, prontamente e pubblicamente ringraziati da Aleksander Ceferin, Presidente dell'UEFA, che ne ha riconosciuto il ruolo fondamentale nella vittoria.

Che dire, stavolta, stranamente, le Federazioni sportive che hanno sempre posto l'indipendenza del calcio dalle ingerenze politiche minacciando pesanti squalifiche in caso contrario, hanno ben volentieri accolto il soccorso, con un ossequioso inchino.

Alla fine tutto è bene quel che finisce bene. Tutti hanno vinto, tranne la realtà.



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